Type de texte | source |
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Titre | Annotationi nel Libro Della Poetica d’Aristotele ; con la traduzione del medesimo libro in lingua volgare |
Auteurs | Piccolomini, Alessandro |
Date de rédaction | |
Date de publication originale | 1575 |
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Editeur moderne | |
Date de reprint |
(part. 19), p. 67-71
(Traduction) Percioché di quelle stesse cose, le quali noi con molestia e con abominazione guardiamo, le figure nondimeno, e le imagini esattamente et somigliantissimamente fatte, gaudemente godiamo, e siamo vaghi di riguardare : com’a dir, figure e ritratti d’abominevoli, e molesti animali, e di cadaveri. Et la ragion’ di questo si dee stimar, che sia, che l’acquistar notitia, et imparar di nuovo è cosa giocondissima, non solo a i filosofi, ma parimente agli altri; quantunque in vero gli altri non habbian di ciò tanta parte. Per questo adunque senton piacere di riguardare i ritratti, e le immagini delle cose, perche in così fatto riguardamento accade lor d’acquistar notitia, et di conoscer quasi per sillogismo che cose quelle tai cose siano; com’à dire, che questi sia colui. Imperoche se accaderà, che quelle cotai cose non siano state vedute, o conosciute prima, non cagioneranno le immagini d’esse, per causa dell’imitatione dilettatione alcuna: ma solo la cagionerà forse la qualità dell’artificio, o la vaghezza dei colori, o altra somigliante cosa.
Annotationi. […] Non lascerò già di dire, non conoscer’io fondata in questo luogo la ragione, o vero il segno d’Aristotele, in argomento dal maggiore, come stima il Robertello; il qual forma l’argomentatione in questo modo. Se le persone con piacer riguardanno le dipinte figure delle cose dispiacevoli, e noiose ; molto più diletto gusteranno in guardare le azioni poetiche, le cui imitazion son di cose, che non son’horribili, et dispiacevoli ; non dovendosi recar in scena imitazion di morti, di ferimenti, di tormenti, e d’altre tali acerbe cose. In così fatta spositione, lasciando primieramente stare, che la forma dell’argomento, ch’ei fa, non è dal maggiore, com’ei dice, ma dal minore, poi che conclude affermativamente; come ben sanno i logici; son comprese più altre cose; al mio giuditio non convenienti. Et in prima adduce questo segno Aristotele, argomentando, o dal minore, o dal maggiore; ma prendre l’imitation delle cose dispiacevoli, più tosto, che delle dilettevoli; perche, se prendesse le dilettevoli, si potrebbe pensare, che nel sentir diletto in vederle imitate, non fusse l’imitation cagione di quel diletto; ma ch’egli nascesse dalle stesse cose, che nell’imitatione ci si rammemorassero; et per conseguente più tosto quella rammemoratione, et quel riconoscimento, che la imitatione stessa ci dilettasse, dove che in veder’ imitate cose spiacevoli, et noiose, sentendo diletto di cotal vista, bisogna, che non potendo ciò nascer dalle cose stesse, nasca di necessità dall’imitatione. Oltra di questo non fa al proprio nostro presente il dire, che nella pittura, et in altre simili arti, accascar possa, che s’imiti cose spiacevoli, et horribili, e nelle sceniche poesie ciò non si debba fare, per non dover tai cose apparire in scena, percioché non delle sceniche e drammatiche poesie specialmente intende Aristotele in questo luogo ; ma vuol provar esser vero, che l’imitazion porti natural diletto. E la prova procede, non solo in una specie di poesia, ma in tutte le specie d’essa, anzi in tutte le imitazioni. Oltrache il non doversi recar’ in scena imitazion di morti, d’ammazamenti, di ferimenti, e simili, non nasce dal non potersi nella scena imitar cose, che dispiacino, imitandosene quivi molte; ma da altra cosa procede, come vedremmo, quando della favola tragica si parlera, che passione, over patimento domanda. Basti per hora d’haver per certo, ch’in ciascuna spetie di poesia si può imitare così le cose, che vere essendo dispiacciono, et s’abboriscono; come quelle, che vere essendo piacciono. Et maggiormente che può occorrere, che una stessa cosa imitata, ad alcuni di quei, che la veggono, nel vero esser suo, dispiaccia, et odiosa sia; et ad altri per il contrario sia dilettevole. Et nondimeno non è dubbio, che la poetica facultà nelle leggi sue non habbia da depender da accidental varietà delle libere volontà degli huomini.
Non ho ancora per molto sicuro il modo d’imparare, che vuole il Vittorio, che si faccia nell’imitatione; dicendo esso, che l’imparare, che quivi si fà, altro non importa, ch’un’esercitarsi con l’aiuto dell’imitatione, et un rinnovarsi, et raccendersi nell’animo, la cosa imitata, che già era quasi spenta, et sopita. Ma io altrimenti credo, che s’habbia da intender questo imparare; cioè ch’in modo di sillogismo si concluda, che questa cosa sia quella, com’à dir, che quel volto, che ritratto, et pinto vediamo, sia il volto, com’à dir di Papa Gregorio, il che prima non sapevamo; di modo che non solo si viene ad escitar nell’animo cosa, che sopita vi fusse, ma ancora di nuova cosa s’aquista notitia; come non molto di sopra haviamo in buona parte dichiarato.
Non mi posso ritenere di non palesare la maraviglia, ch’io prendo di quello, che sopra di questo luogo dicon’alcuni spositori in lingua nostra. Dicon’adunque parer loro Aristotel degno di riprensione in dire, che l’imitatione nelle cose ben’imitate, o piacevoli, o dispiacevoli, che le siano nell’esser loro, recchi sempre dilettatinoe: conciosiacosache spesso si vegga (dicon’essi) accader il contrario. Com’ per essempio, quando noi vedendo bene imitato un nostro nemico in qualche honor posto, ci rattristiamo per la invidia, che ne prendiamo et in veder ben’imitato qualch’atto lascivo, et lussurioso, come l’uso stesso scoperto di Venere, o simile, l’huomo honesto ne prende abominatione, et fastidio. Et in veder ben’imitato qualche ammazzamento, o ferimento, o altro sfortunato accidente di qualche persona a noi grandemente cara, come di padre, di figlio, o simile; sentiam subito intenerirci, et riempirci di dolore. Et il simile van costoro discorrendo per altri simili casi: nei quali tutti, dicon non esser vero quello ch’Aristotel dice, che diletti l’imitatione. Queste cose mi paion tanto facili a mandarsi a terra, ch’io non mi voglio più distender in esse: potendo ciascheduno per se stesso vedere, che tutti i detti dolori, et tristezze son cose per accidente, che non da imitatione, derivano, ma da cagioni congiunte per accidente con quella.
Riprendono alcuni spositori in lingua nostra Aristotele, che a provare, che l’imitazion diletti, si servi dell’esempio della pittura, essendo simili i cotal diletto la poesia e la pittura. Conciosiacosa che la pittura diletti più, quando imita persone riconosciute ; e la poesia per il contrario più diletti imitando azioni non sapute prima, come la venuta d’Enea in Italia, et simili ; che non fa quando imita azzioni già note, come la guerra tra Cesare e Pompeio et simili. Ma così fatta riprensione non ho per legitima, o di valor alcuno. Primamente stimo io, che pecchi, perché l’esempio, ch’Aristotele prende dalla pittura, non è preso da lui per provar altra somiglianza tra quella e la poesia, che questa del dilettare in amendue l’imitazione.
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(part. 88), p. 245-248
Questo precetto[[5:rappresentarsi le passioni.]] non penso io, che sia posto, come stima il Maggio, per instruzione degli histrioni ; volendo, ch’Aristotele dica, che se gli histrioni voglion poter ben far’apparire e far parer veri gli affetti, e le qualità di coloro, le cui persone sostengono, fa di mestieri, ch’eglino nei gesti, nel volto, et in ogni movimento, si sforzino di formare, e quasi figurar se stessi di quei medesimi affetti, e passion d’animo, ch’esprimer vogliono. A questa sposizione non adherisco, come quello, che son di parere, che Aristotel’in questo luogo non abbia intenzione d’instruir gli histrioni ; ch’ad altra arte in un certo modo pare, che convenga ; ma che piuttosto vada d’instruir li poeti, dando loro per precetto, che se vogliono, che tutto quello, che fingono, e scrivono, possa far momento negli animi degli spettatori ; e che le cose, che fan dire o fare alle persone da loro introdotte, possin parere necessariamente nate da quegli affetti, e da quelle condizioni, e qualità, che in quelle fingono, fa di bisogno, ch’eglino stessi facciano a se stessi impeto e forza d’accendersi e di vestirsi di quei medesimi affetti, costumi, e qualità, che vogliono far’apparir nelle rappresentate persone loro. Com’a dire, che se gli hanno da esprimere e da formar uno irato, o un pieno di timore, fa di mestieri, che se vogliono, che le parole, e le azioni, e li gesti, che a quelle persone assegnano, paiano veramente da uno accesso d’ira, o preso da timor’usciti ; formino, e trasfigurin quasi se medesimi in quelle persone, e si riempino, e s’accendino di questo stesso affetto d’ira, o di timore, o di qual’altro affetto sia. Posciaché nessuno potrà mai fingere, o imitar meglio le parole, le azioni, li gesti, e li movimenti d’un irato, d’un pauroso, d’un clemente, d’un crudele, e simili ; che farà colui, che veramente sia preso da questi affetti. Et per conseguente il poeta, benché con verità non se gli offeriscan’oggetti, che gli esercitino queste passioni nell’animo ; nientedimanco si ha da sforzare di far quasi impeto a se stesso, o con immaginazion di oggetti, che a ciò lo muovino, o com’altrimenti può, d’accendersi più che gli sia possibile, di tali affetti, e trasfigurarsi in un certo modo in persone accesse di essi. Et in questa guisa, fatto quasi un’altro da quel, che gli era, potrà molto meglio assegnar parole, attioni, et gesti alle persone della sua favola, che convenghino a quelle qualità, che egli vuol fingere, et porre in esse. Et questo contiene il presente precetto di Aristotele. Per la qualcosa non posso fare, che io no mi maravigli di quello, che in questo luogo dicono alcuni spositori in lingua nostra in riprension di Aristotele. Conciosiacosache essi lo riprendino, e si maraviglino, ch’egli voglia, ch’il poeta, quando vuol esprimer’affetto, o costume di una persona, debbi prima formare, et quasi figurar se stesso di quei medesimi movimenti : parendo a loro, che sia questo precetto impossibile ad osservarsi. Posciache non può l’huomo esser preso dall’affetto, subito ch’egli vuole, non essendo il far questo in poter suo ; ma ricercandosi qualche oggetto, ch’à ciò lo muova. Dimaniera che non posso io, per essempio, a voglia mia com’à dire, in questo punto, accender mi d’ira, se qualche oggetto di ingiuria fattami da chi si sia non mene porge cagione. Ma quanto debole, et leggiera sia così fatta lor riprensione, et così fatta lor ragione, che essi assegnano ; mi parrebbe cosa di soverchio il dimostrare : potendo esser’a ciascheduno chiaro, ch’Aristotele non sia così sciocco, ch’egli voglia, ch’il poeta sia preso veramente da sua propria ira, o timore, o altro affetto a voglia sua senza occasion di oggetto. Ma vuole, ch’egli si sforzi più che può, et faccia quasi impeto a se stesso di vestirsi, et di fugurarsi del tale, o del tal’affetto ; com’à dir, dell’ira ; in quel modo quasi, che se veramente ne fusse acceso. Et puo ancora accascar’ alle volte, che realmente sen’accenda col suo volere ; com’avverrebbe, quando in qualche tempo havesse ricevuto ingiuria, et quasi rimessa l’havesse, o scordato sene fusse. Nel qual caso puo il poeta, quando egli scrive, procurare, per più facilmente dar ricetto all’ira, di ridurre con la immaginatione, et con la memoria nell’animo ogni affetti, caso che mai oggetti gliene fusser venuti innanzi, come d’amore, d’odio, et simili. Basta (in somma) che o per questa via, o per qual si voglia altra, vuol’Aristotele, che il poeta, nel distender’il suo poema, faccia forza, quanto puo, di trasfigurarsi in quei movimenti, che egli cerca di far’ apparire, che siano in altri. Et in questa guisa non è dubio, che facilmente le parole, le attioni, et li gesti, ch’assegnerà alle persone, saran conformi agli affetti, et alle qualità, ch’ei vuole, che si conosca, che siano in esse ; com’appar’ancora quel che io dico nell’ultima annotatione sopra la seguente particella.[…]
Quando dice Aristotele nella particella ottuagesimottava, che per formar bene gli affetti delle persone, deve far forza il poeta di formare, e quasi figurar se stesso di quegli stessi affetti, stiman’ alcuni spositori in lingua nostra che questo precetto sia dato a fine, ch’il poeta possa poì imitar quegli affetti nel modo, che gli ha prima formati in lui. Onde riprendon’ Aristotele, dicendo ch’il poeta in formar’in altri gli affetti, non deve prender l’esempio dagli affetti, che son’ in se, ma da quelli, che habbia osservato altra volta in altri. Et ciò conferman con l’esempio di quella pittura in Roma, dove depinti son gli apostoli, ch’in veder venir Christo sopra l’acqua, mostran gran maraviglia, et stupefattione son diversi atti, gesti e modi d’ammiratione. Il che se quel pittore havesse solo all’essempio della maraviglia, che soleva esser’in lui, guardato, et non a varii essempi di molti, che havesse egli osservato nel lor maravigliarsi, non harebbe potuto variar le maraviglie di quegli apostoli, ma in tutti le harebbe fatte simili. In questa sì fatta riprensione, et discorso, vengon costoro a ingannarsi in questo, ch’Aristotele non pone questo precetto, com’essi pensano, perché il poeta abbia da servirsi degli affetti, che forma in se, per essempi di quelli, ch’ei vuol formare, e far’ apparir’ in altri ; ma solo perché nel formargli in altri, habbia in se tali affetti, che l’aiutino, e gli dieno maggior’ impeto, et forza à farlo.
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(part. 11), p. 41; 45
[[6:traduction]] Hor perché coloro, che imitano, imitan persone, che qualche cosa facciano ; e queste tai persone, o buone, o ree fa di mestier, che siano ; conciosiacosache a queste due sole (si può dire) qualità del buono, e del reo, ogni costume dell’huomo segua e si referisca ; come per la virtù, e per il vizio gli uomini diferiscan tutti è necessario che o di persone megliori, o di peggiori di communemente noi siamo ; si come usan di fare i pittori ancora, posciaché Polignoto più belle le persone di quello, ch’ordinamente sono ; Pausone più brutte, et Dionisio simili ad esse, solevano dipingendo rappresentare.
[[2:Annotationi]] In quelle parole (si come usano) si serve Aristotele dell’ essempio dei pittori a mostrar, che le poesie, sì come le altre imitationi, possin differire in imitar diverse cose. Onde pure, che ne segua, che o le pitture de gli allegati pittori siano di differenti spezie, o vero che tal essempio non servi à mostrar, che le poesie possino in spetie differir per diversità di cose imitate. Ma lasciando per hora di considerare, se le pitture dei detti pittori, per dipingersi nelle une le persone più belle, e nell’altre, le persone più brutte di quello, che communemente soglion’ essere ; si debbin diverse stimar nelle loro spetie, o nò ; à che io più tosto inclino ; si dee rispondere alla detta obbiettèone, non esser, ne nella poesia, nè nella pittura, o in qual si voglia imitatrice facoltà, necessario, ch’ogni diversità di soggetti imitati, faccia specifica differentia nell’imitatione ; ma solo quando quella diversità dependerà da alcune qualità, che siano di grande importantia a variar lo stato, e l’esser della cosa. Et se ben pare, che debbi far questo nell’huomo la qualità del buono, e del reo, dependono dalla virtù, e dal vizio, che considerato l’huomo, come huomo, importan la somma della vita sua, e del suo stato, o felice, o misero ; nondimeno questa qualità à ciò non è bastante, se non vi s’aggiunge differentia di conditione, e di stato, come vedremo. Si come adunque la giovinezza, e la vecchiezza, la povertà, e le richezze, la sanità, e le infirmità, e molto manco la bianchezza, e la negrezza, o altri così fatti accidenti, non son bastanti a fare tal diversità nell’huomo, che possa in tutto diversificar le spetie dell’imitazion poetica ; così per il contrario quelle qualità, che posson dai fondamenti diversificar la vita sua, e lo stato suo, son bastanti a farlo come a dir, tra persone d’illustre, e signoreggiante stato, e persone di stato mediocre, e di privata, e soggetta condizione ; la qual diversità rende differente la tragedia dalla commedia.
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(part. 12), p. 47
La differenza delle imitazioni, ch’Aristotele induce, che consiste nella varietà delle cose imitate, non vi è addotta, perché abbia forza a far differenza specifica in tutte le imitazioni, dove la si trova. Impercioché si come con l’esempio della pittura si vede quivi, che i pittori differiscono spesso tra di loro in depinger le persone o più belle, o più brutte di quello, ch’ordinariamente sono ; e nondimeno non si devono per questo stimare le arti loro esser diverse spezie, ma solo differenti per differenzie accidentali, e non essentiali.
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(part. 14), p. 51
Non son dunque la tragedia e la commedia differenti in spezie per esprimere l’una persone migliori, l’altra peggiori, secondo la bontà e la malitia morale, di quello, che communamente e ordinariamente siano. Conciosiacoache se questo bastasse à cagionare distintione essential di spetie ; potendosi trovar nell’epica poesia, et nella dithirambica, la già detta differentia ; verrebber’ anche à trovarsi in ciascheduna d’esse, diverse spetie. Il che, nè appresso d’Aristotele, nè d’altro approvato scrittore alcuno, hò mai trovato. L’essential material differentia adunque, che la tragedia distingue dalla commedia, s’hà da intendere, come vedremo al luogo suo, consister’ in questo, che l’una hà per soggetto persone in eminente, illustre, potente, et signoreggiante luogo posto, come son heroi, re e gran prencipi ; et l’altra di persone di civile, et citadinesca condizione, di vita commmune, et d’ordinario, et mediocre e privato stato, come sono i privati cittadini, e le persone, con le quali suole lor’ occorere ordinariamente di conversare ; come lor moglie, figli, servi, meretrici, mercantili, e simili. Ma per qual cagione la tragedia in imitar le dette sue persone, cerchi di formarle migliori, che communamente sogliono essere ; et la commedia per il contrario vada le sue facendo, et fingendo peggiori ; com’a dire, i vecchi più avari, i giovani più dissoluti, i servi più infideli, le meretrici più ingannatrici di quello, ch’ordinariamente trovar si sogliono.
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